Lou X:
Che sono un
bandito non è una scoperta.
Con il fucile
sto sempre all’erta.
Il grilletto
ruggisce, ne sono capace: il solo rumore, lo sparo mi piace.
Io sono Lou
X, figlio di puttana.
Punto il fucile.
Caccia la grana.
Non rompermi
il cazzo, avanti chi vuole: gli ficco nel culo il mitragliatore.
Questa è una
guerra per me un gioco.
Pronti a
puntare e poi a fare fuoco.
Se c’è
qualcuno che ti fotte la vita.
Spara cattivo
e sarà finita.
Perché pensi
troppo ?
Ti fermi alla
mente, trasforma l’idea in lotta opponente!
La strada è
una merda ma io puzzo di più.
Mi dici
criminale ma lo sei anche tu.
La pula nel
culo non dico cazzate: non metterti contro le mie pistolate.
Nessuno mi
frega, sicuro fratello.
Io al mio
nemico gli taglio l’uccello.
Io sono un
bastardo e piscio veleno, alla violenza non faccio da freno.
Ti apro il
cervello ci infilo la bocca, con queste parole la mente si spacca.
Comincio a
pensare.
Minaccia
sicura.
La gente che
pensa mette paura.
Ma ascoltami
bene la rabbia è perché questa situazione non parte da me.
Opprimi le
gioie esalta il dolore.
Lo sguardo
lontano, i tagli nel cuore.
Questa è una
missione e fra qualche giorno all’inferno io farò ritorno.
Io sono Lou
X, e sono un figlio di puttana…[1]
Privo
di uno schema metrico certo; fondato su continui riferimenti alla lotta armata
e con un andamento da filastrocca, questo rap rabbioso e senza fronzoli
dovrebbe in qualche modo emulare lo stile dei Public Enemy ma finisce per
assomigliare alla parodia di una lettera di rivendicazione delle BR. La carica
eversiva priva di un vero e proprio stile diventa ingenua, scurrile e perfino
imbarazzante.
Baghdad 1.9.9.1. ben confezionato e con i testi inclusi, rappresenta
un chiaro segnale di come anche l’underground fosse in grado di sfornare
prodotti realizzati dignitosamente. Quattro brani (anche se in realtà sono solo
due:) lato A Baghdad 1.9.91., Baghdad 1.9.91. (anti media,) lato B Macabra Danza (raptus,) Baghdad 1.9.91.
L’attacco di Militant A in Baghdad 1.9.91. non è privo di fascino
ma non è rap. Descrive con rapide pennellate uno scenario di guerra, che poi è
quello che è rimasto nell’immaginario collettivo comune: lo strapotere
tecnologico americano che porta morte e distruzione nel silenzio della notte, con bombardamenti aerei, visori a
raggi infrarossi e i tristemente famosi missili intelligenti.
Militant A:
Orribile notte.
La bandiera a stelle e strisce è in volo.
Ha i colori della morte.
Nella notte senza luna è il suo rumore…
Senza più
nessuna esitazione.
Per colpire e non vedere nient’altro che
se stessa.
Scoperta nel deserto la bandiera della
guerra su Baghdad 1.9.91.
Con
la strofa di Castro X le cose peggiorano decisamente.
Castro X:
Basta basta bastardi!
Mi chiamo Castro X, ti odio stronzo
yankee.
Fermo yankee, filantropo del mondo ma tu
menti.
Un grappolo di infami nei governi.
Fermi yankee!
Mettete giù le mani folli immondi!
Basta basta bastardi! hai visto…
Montecitorio attento a dove metti i
piedi.
Laido Ferrara, gobbi infami, brutti
stronzi.
Fermi basta basta bastardi!
Quando dite guerra al mondo col sorriso
state attenti!
Più
che di un testo rap sembra si tratti di slogan urlati ad una manifestazione.
Slogan legittimi ma del tutto privi di quello spirito che sta alla base dell’hip
hop e che considera lo stile una parte integrante della cultura che si intende
diffondere. Se il giudizio di molti rappresentanti dell’hip hop del tempo
riguardo a quel periodo è particolarmente negativo, non è nei confronti dei
contenuti (più o meno condivisibili ma che in un certo senso garantivano una
certa peculiarità alla scena;) è un problema di stile. Un problema (in soldoni)
di tipo stilistico letterario.
Considerando
poi la faccenda di quello che era prodotto oltreoceano nello stesso periodo in
cui esce Uniti contro la guerra, ci
rendiamo conto di che abisso separasse l’hip hop italiano delle posse da quello
americano. Nel 1991 per esempio esce We
can’t be stopped, probabilmente il capitolo migliore dei Geto Boys di
Huston Texas e pietra miliare del gangsta
rap insieme a Efilrofzaggin’
degli NWA e Amerikka’s most wanted di
Ice Cube. Dischi molto evoluti e decisamente ricchi di funk. Ascoltandoli ci rendiamo facilmente conto di come un certo
tipo di rap (intendo quello delle posse) fosse assolutamente fuori tempo
massimo. Inoltre, come nota Next One, uno dei pionieri del breaking e in generale dell’hip hop in Italia, nel libro di Damir
Ivic, ciò che manca in questi rappers è il senso del flow e un’estetica della parola.[2]
Tutto questo non deve sminuire l’importanza e la
portata storica di quello che è stato effettivamente un vero e proprio
movimento. Poi sia chiaro, quando parliamo di un movimento, dobbiamo sempre rapportarci
alle dimensioni reali di cosa si trattava effettivamente: un gruppo di
adolescenti che cementificava le proprie personalità attraverso rituali collettivi,
con gli evidenti limiti di un regime in scarsezza di mezzi. E’ per esempio
abbastanza commovente e spiazzante guardare oggi il video originale di Stop Al panico su YouTube. La sensazione
è di osservare un vecchio filmino amatoriale, girato da giovani universitari
goffi e brufolosi che sparano proclami nell’indifferenza della gente in centro
a Bologna. Con le moderne tecnologie di montaggio video e l’elaborazione che
siamo riusciti a realizzare, il video ‘casalingo’ degli Isola Posse All Star
sembra far parte di un passato lontanissimo che quasi non esiste più.
Paradossalmente se quella era la condizione triste e contraria a quella
odierna, il risultato è che c’era molta più comunicazione e coesione illo tempore. Il che ci fa riflettere su
quanto l’informazione di per sé non sia utile ad un processo evolutivo
personale e collettivo. Infatti, sebbene l’unico modo per far circolare la
propria musica fosse affidarsi all’audiocassetta, il modo migliore per
certificare la propria adesione era essere presenti alle jam e ai party, il che
faceva ancora valere il principio che la migliore presenza era la partecipazione,
rispetto ad oggi che, nell’era della Rete, la partecipazione rientra nella
categoria degli eventi (ovvero è rara.)