Capitolo 1.1 Jovanotti e Radical Stuff

Nel 1988 a Domenica In, un giovane e particolarmente irriverente Roberto D’Agostino introduce un personaggio di nome Jovanotti davanti ad una platea di teen agers urlanti (sedute su sedie da regista in fila davanti a lui - format che Boncompagni scipperà nel suo celebre Non è la Rai.) Con una certa lungimiranza, queste sono le sue esatte parole:
‘Volete conoscere il Marcello Mastroianni del duemila?’
Le ragazze in coro urlano Siii!
‘Volete conoscere il Mino Reitano del futuro?’
Le ragazze in coro urlano Nooo!
‘Bene noi di Domenica In vi mostreremo tutto ciò che sarà nuovo. Chi saranno i protagonisti dei prossimi anni. Le facce nuove. E la faccia nuova del 1988 noi ce l’abbiamo. E’ una faccia. Una storia. Un nome. 1 2 3! Jovanotti!’
Caratterizzato da una fastidiosissima risatina non spontanea e un modo di camminare innaturale che non lo fa mai stare fermo, questo giovane e aitante ragazzino   di Arezzo, il cui nome è Lorenzo Cherubini, appare davanti alle telecamere come un gigante timido che maschera il proprio imbarazzo dietro un costume. Il costume è quello del rapper.
Questo oggetto, il rapper, sconosciuto alle masse italiane - guardando Jovanotti, cosa fa? Si muove come una gigantesca cavalletta, piegando tantissimo le ginocchia, saluta tutti dando strane pacche sulle mani e dice  cose incomprensibili in inglese - che fa molto figo. Tecnicamente Jovanotti nel 1988  sta all’hip hop come Nando Mericoni sta all’America negli anni 50. L’emulazione è tutta di facciata.[1]
Jovanotti quando si presenta davanti alle ragazze di Domenica In indossa: il chiodo rosso e i jeans chiari di MCA, la collana in finto oro di Mike D, il cappellino da baseball di AdRock. Quando Jovanotti indossa la catena con il logo della Mercedes infilato dentro, si capisce che non lo fa perché ciò fa parte della sua cultura (perché ovviamente non ne fa parte) ma perché ha studiato esattamente come sono vestiti i Beastie Boys nel video di Fight for your right to party del 1986. Non è però solo un problema di maschera. O almeno non si riduce tutto a quello.

Nel 1989 cioè un anno dopo l’apparizione di Jovanotti a Domenica In,  sugli schermi di Videomusic (l’emittente toscana di clip musicali che andava in onda in tutta Italia) appare in rotazione il video di Let’s Get Dizzy di tali Radical Stuff. Il brano e il video in questione non hanno niente da invidiare a una produzione americana che si rispetti di quegli anni (penso a un qualunque video dei Gangstarr dello stesso periodo, ai quali per altro il brano sembra rifarsi.) Gli italiani Sean, Sean Daniel Martin nato in Sudafrica ma cresciuto a Milano, e Kaos, Marco Fiorito come Radical Stuff (portati per mano nella loro lingua dagli mc statunitensi Soulboy e TopCat e dai dj italiani Skizo e DJ Gruff, ) sviluppano fuori dai centri sociali un rap in inglese che è addirittura antecedente cronologicamente a quello delle posse. Un rap di ottima fattura il cui inglese non appare affatto buttato lì a caso ma frutto di ricerca e di preparazione. Con tutti gli ovvi limiti del caso.

Kaos:
Oh yeah once again,
let me talk about my muse insane.
I’m talking about my brain the same, the same
beat the same shit I used to kick everyday that I live.
 Hello Solo you know,
here we go… Yo yo!
Man you slam..
Hell no!
Because I’m radical, because I’m from the Radical Stuff. Yo! Man [incomprensibile] and get rock!

Il 1989 è  l’anno in cui in mezzo ad un nutrito gruppo di ragazzi che si esercitavano con il writing e con il breaking sul marmo freddo del pavimento davanti al Teatro Regio di Torino, nascono i Devastatin’ Posse di Carri D i quali incidono per l’etichetta Black Out di Giovanni Lindo Ferretti il singolo in rap inglese What’s your Rhyme?
Ma torniamo all’esibizione del 1988 di Jovanotti a Domenica In.
Quando Jovanotti entra in scena vorrebbe scambiarsi pacche sulle mani con D’Agostino, come fanno gli americani. Ma D’Agostino dapprima entusiasta, dimostra subito di non capirci niente. Jovanotti fa la faccia scocciata facendo passare per uno sfigato D’Agostino. Il quale evidentemente innervosito, come una vipera tagliente rifila una coltellata in pieno petto all’aretino.
‘Questo sciagurato – dice D’Agostino – è non solo un altro cantante che abbiamo tra i piedi, uno dei tanti cantanti che ci sfornano Vota la Croce e compagnia varia…’
Il giovane Lorenzo Cherubini si copre d’istinto la faccia. Infatti la sta perdendo.
Nessuno se ne sarà certo reso conto allora. Ma è evidente che D’Agostino conosceva già molto bene il giovanotto in questione e sapeva anche chi lo raccomandava per essere arrivato fino a Domenica In lì da lui. Per altro, il proseguo dell’intervista di D’Agostino smaschera abbastanza impietosamente l’operazione.
D’Agostino chiede sesso?
Jovanotti risponde imbarazzato: ‘Beh certo bella quella storia a chi non piace? Oh però io non è che sono tanto pratico, sono un po’ timido.’
D’Agostino chiede droga?
Jovanotti. ‘Oh molliamo il colpo con quella roba lì cioè basta ne ho parlato qui alle famiglie italiane ehehehhe…’
D’Agostino chiede rock’n’roll?
‘Beh quello alla grande, non c’è problema!’
Subito dopo è il momento dell’esibizione. L’esibizione di Jovanotti è sconcertante in quanto - vestito come un giovane e belligerante yankee alla moda, in realtà quello che gli esce dalla bocca è una sorta di ragamuffin rastafari sessista (baby baby I got to show you my stuff) i cui testi insignificanti sono lì a dimostrarlo.

Jovanotti:
Ragga too fine. (forse dice ragga two times?)
Ragga too fine.
Ragga too fine yeah oh!
Ragamuffin…Gimme five!
Yeah Boy! Every Man Rastafari…
Say you rock and roll
Then you roll and rock…
Then you got to do it,
because I don’t want to stop.
BB record the heart taker,
come on man let’s turn it up!
Home boys, party guys don’t stop!
Say Papa Jovanotti he got to make you rock.
Baby baby I got to show you my stuff…
Baby baby I got to show you my stuff. Yo!
       
E’ evidente che esistono due mondi e sarà sempre di più così andando avanti con questa storia. Da un lato, il fenomeno rap si presenta con una faccia pulita sui grandi media. E’ la storia che va da Jovanotti agli Articolo 31 passando per i Sottotono, i Gemelli Diversi e chissà chi altro. E’ talmente evidente che dirlo suona perfino scontato. Dall’altro, la controcultura hip hop comincia a serpeggiare in Italia in circuiti alternativi e ciò accadrà attraverso la nascita del fenomeno posse. Ma facciamo un salto in avanti di vent’anni.

Fabri Fibra, Fabri Fibra, Fabri Fibra tutto o quasi l’hype  dell’hip hop italiano degli ultimi sette, otto, nove anni ruota intorno a questo ragazzone di Senigallia  che si è mangiato gran parte della torta. Questo ex adolescente, ormai un uomo di quasi quarant’anni, è il protagonista (tra i protagonisti) di una storia avvincente. Una storia che comincia nell’ormai lontano 1995 quando allora adolescente passava i suoi lunghi pomeriggi chiuso in un garage di Senigallia a fumare con il fratello Nesli e a produrre musica hip hop  con Lato, al secolo Nicola Latini, suo compagno dj e producer. Tutto ciò lo troverete perfettamente descritto nella sua biografia autorizzata e in altri libri. Il contesto è quello più ampio del rap italiano underground al momento del suo massimo splendore.[2]

Il Rap Italiano Underground nasce all’indomani del periodo delle posse e dunque intorno alla prima metà degli anni 90. Prima del 1992 - 1993 il rap è un genere musicale di origine afro americana che si sviluppa in Italia principalmente nei centri sociali autogestiti e che ha i suoi tre fulcri principali a Roma, Bologna e Milano. Nella capitale tutto ruota intorno alla compagine degli Onda Rossa Posse poi Assalti Frontali di Castro X e Militant A i quali, partendo come speaker radiofonici, avevano sviluppato un rap molto duro e senza fronzoli, estremamente politicizzato e che ricalcava l’ala più militante del rap statunitense (il riferimento principale per questi gruppi erano i Public Enemy e artisti come KRS ONE.)[3]
La controparte bolognese era quella degli Isola Posse All Star tra le cui fila militano membri, alcuni dei quali poi andranno a comporre il nucleo principale dei Sangue Misto, come Neffa, DeeMo, Deda e DJ Gruff; è un’esperienza felice quella del centro sociale Isola nel Kantiere e che certamente darà i frutti musicali migliori. Altre realtà underground cominciano a uscire fuori da Napoli e Torino. Possiamo dire, senza paura di essere smentiti che questo primo rap italiano pionieristico a livello di testi e per le capacità dei singoli esponenti, sebbene oggi abbia un suo fascino particolare, era tutt’altro che avvincente. La difficoltà di interpretare la tecnica sui piatti, le poche conoscenze nell’ambito dei campionamenti e l’approssimazione nell’uso della rima sono fatti piuttosto incontrovertibili ed evidenti col senno di poi. Goffaggini e ingenuità stilistiche nascevano dal fatto che non esistevano esempi e si trattava di inventare qualcosa da zero, qualcosa che rispetto alla nostra cultura era distante un oceano. D’altro canto, il contesto politicizzato dei centri sociali favoriva l’idea che ciò che contava era il messaggio. Così la Nation of Islam, il Black Panthers Party di H. P. Newton, le suggestioni dei libri di Malcom X, il gangsta rap e la cronaca quotidiana (siamo in pieno Desert Storm) mixata  con le teorie marxiste dei centri sociali: tutto ciò confluiva disordinatamente nei testi di questi primi rapper. Riascoltare quei vinili e quelle musicassette oggi (dischi e nastri magnetici sono i veri media di questa originale scena italiana - il CD come supporto autoprodotto doveva ancora nascere) bisogna riconoscerlo, non è un bel ascoltare. Basta ritirare fuori i dischi e le cassette, approfondire un po’ la faccenda delle rime e ci si rende conto in fretta che è materiale  piuttosto primitivo e di opinabile valore stilistico.




[1] Il protagonista, interpretato da Alberto Sordi, di Un americano a Roma il film del 1954 diretto da Stefano Vanzina, in arte Steno.
[2] Episch Porzioni Lo Spettro. Storia di Fabri Fibra 2011 Chinaski Edizioni; Michele Monina Io Odio Fabri Fibra controstorie di una rivoluzione nel rap 2011 Salani Editore.
[3] Vedi Damir Ivic Storia ragionata dell’hip hop italiano, op. cit. p. 49